racconti
GRUPPO ANTICHI ORMEGGIATORI
DEL PORTO DI GENOVA
E pe tanti anni imbarche´ in scie questu bastimentu Andrea Doria pe cumpartimentu E de numme suciete´ Che n’a fetu da mue´ E passessan anche mill’anni Mai ciu´ ti l’ascurdie´

Racconti di lavoro nel porto di Genova

9 Aprile 1970
Il naufragio della London Valour

ritratto in bianco e nero della tragedia della London Valour

16 aprile 1970: la tragedia della London Valour si sta compiendo, la macchina dei soccorsi è in piena attività. Una barca degli ormeggiatori è ritratta (se ne scorge la prua) mentre presta soccorso ai naufraghi

fotografia di imbarcazioni nel mare in tempesta fuori della diga foranea

La Motovedetta della Capitaneria di Porto, tra le poche imbarcazioni a stare “a mare” fuori della Diga foranea, in quella giornata

Registrai che il vento stava cambiando. La giornata era tersa, ma già c'erano segni nuovi nell'aria. Le bandiere a poppa delle navi ormeggiate ai Magazzini Generali mostravano chiaramente vento da ponente. Mi resi conto che anche nella sala operativa l'atmosfera era cambiata. La vetrata che la separava dall'ufficio mi permetteva di vedere cosa succedeva in sala e anche oltre, verso la diga foranea.

Stavo battendo a macchina il verbale dell'ultimo consiglio d'amministrazione, ma mi resi conto che ero distratto da un vociare che, all'improvviso aveva assunto un timbro diverso. Non c'era più di mezzo il calcio, le solite storie di arbitri. Il tono era più alto, più nervoso, concitato. Belin, non riuscirò mai a finire 'sto verbale! sbottai a mezza voce. Avevano alzato il volume della radio ricevente d'emergenza. Smisi di pestare sulla tastiera. Qualcuno, attraverso l'apparecchio, stava gridando in inglese.

Avvertii un mayday ripetuto alcune volte da una voce alterata. Sul fondo di essa si avvertiva una nota isteroide. Alzai lo sguardo e vidi la nave dietro la diga. Stava scivolando velocemente verso levante e mi parve troppo vicina alla struttura portuale. Pensai a uno scherzo ottico dell'aria. Ci sperai. Capita qualche volta che la prospettiva gioca strani scherzi. Qualcuno mi chiamava dalla sala. La porta dell'ufficio si aprì. Vieni in sala un momento, c'è una storia, mi disse Antonio (Di Cristina, ndr). Che storia?

II Mayday che usciva dalla radio stava cambiando. Ora la voce gridava, era chiaramente alterata, c'era una striscia di disperazione in essa. Era il comandante della nave e stava parlando con la torretta dei piloti. Seppi così che l'ancora stava arando, che un pistone era appeso nella sala macchina e che quindi erano in balia del tempo. Guardai ancora verso la diga e capii che non ce l'avrebbero fatta. Prospettiva o no era troppo sotto e non aveva la macchina. Non era riuscita a dare fondo la seconda àncora e il vento la spingeva come una barca da regata. La sua unica speranza era di riuscire a scapolare il frangiflutti e di finire sulla spiaggia.

Squillò il telefono interno... è l'ufficiale di guardia della Capitaneria. Presi il ricevitore. L’ufficiale mi disse che loro stavano partendo con una squadra di marinai. D'accordo, veniamo su anche noi. E così era confermato che erano nei guai. Il vento continuava a infornare, a rinfrescare senza risparmiarsi. Dalla finestra della sala operativa, aperta come sempre, l'aria inconfondibile del libeccio si faceva forza, fresca nell'aria primaverile del primo pomeriggio, sollevando polvere, carta, stracci. La Lanterna spiccava nitida contro il cielo. Chiamai il semaforo, ma era occupato, com’era facile prevedere. Rimangano due uomini qui – dissi - Avvisino gli altri a Ponte Etiopia. Andiamo al Galliera con tre motobarche. Antonio ed io veniamo su col motoscafo. Pensai alla cappotta e agli stivali, ma non c'era tempo. Sul piazzale l'aria si portava dietro una processione di remolini.

Fu così che andammo e mentre mollavamo ognuno il gavitello dell'ormeggio sapevamo che il quarto quadrante era arrivato e s'era portato dietro il suo stramaledetto mare da lampo, come dicevano i nostri vecchi, quello che gli inglesi, senza eufemismi, chiamano il Genoa cyclone. Nell'arco di venti minuti si era scatenato. Era difficile giudicare la sua forza dalle acque interne del porto, ma dal modo come si muovevano le navi in andana alla Sanità e alla Gadda c'era da credere che fuori ce ne fosse per tutti.

Dal Ponte dei Mille saliva un mezzo carico di marinai della Capitaneria e poco dopo ci oltrepassò la Cp a tutta forza. A ridosso del Molo Galliera aspettammo qualche istante per vedere in quale punto si potesse sbarcare senza ricevere in testa qualche tonnellata d'acqua, poi le motobarche si diressero con la prua perpendicolare alla banchina e sbarcarono tutti, manovrando subito a tutta forza indietro. Cominciavano a muoversi altri rimorchiatori e ci ritrovammo tutti dietro la punta estrema di levante.

Ora il mare ce la metteva quasi tutta, una gigantesca pentola di latte che sta per bollire e straripare chissà dove. La nave aveva finito di arare sull'ancora. Non correva più. Era finita sul frangiflutti. Il mare l'aveva bloccata quando le sarebbero bastati duecento metri per scapolare. Stava agonizzando. Cominciammo a sentire i primi tonfi delle lamiere contro i massi del frangiflutti. Non era la prima volta che sentivo l'inconfondibile suono del fasciame contro un'opera muraria, ma questo era molto diverso perché continuo, vario, incessante.

La nave aveva circa 10.000 tonnellate di minerale di ferro nelle stive e ogni volta che il mare la sbatteva contro i massi sembrava che la diga tremasse. Avvertivamo il rombo sotto la carena come quando i bombaroli lanciano l'esplosivo sul fondo. Solo che non era il suono quasi argentino della carica che esplode, ma un rombo cupo, sinistramente cupo. Sembrava venire dalle viscere del Golfo Ligure.

Dai rimorchiatori qualcuno ci gridò di andare in cerca di un grillo per imbastire un va e vieni rudimentale. Girammo tra i rimorchiatori a cercare un maledetto grillo. Perché non fanno venire su un pontone?, mi gridò un amico da un rimorchiatore. Non lo so, dissi......... Poi lo trovammo, il grillo. Colombo aveva scovato l'America e noi avevamo scoperto il nostro attrezzo. All'improvviso un suono di lamiere lacerate sovrastò l'urlo sordo del vento. Trascorsero pochi minuti ed ecco che l'acqua attorno cominciò ad assumere un colore rosso mattone. Fu chiaro che la nave aveva sfondato e che i massi della diga l'avevano afferrata per bene. L’uomo e lo squalo; la nave e il frangiflutti. Ora, come nel "Vecchio e il mare" di Hemingway, gli scogli aguzzi si stavano mangiando l'opera viva, lentamente, spietatamente.

Dirigemmo alla diga col motoscafo. Schivammo una cascata d'acqua. Pronto a buttarlo a terra, dissi ad Antonio. Misi avanti a tutta forza con la prua a fare costa sulla diga, sperando che la corrente non mi facesse qualche brutto scherzo. Poi una virata secca: Buttalo! gridai e il grillo volò qualche metro oltre il ciglio della banchina.

Fu a quel modo che noi, i nostri compagni sulla diga, i sommozzatori e i marinai della Capitaneria a terra e i bengalini dell'equipaggio, a bordo, preparammo la trappola mortale per la moglie del comandante. Lo sapemmo mentre imbarcavamo il primo bengalino che fosse riuscito a prendere terra. Era nero come la nafta, poveraccio, mezzo andato per averne bevuta chissà quanta. Ci volle tutto il coraggio di Antonio per praticargli una respirazione bocca a bocca, ma la spuntò e vedemmo l'uomo che tornava a respirare. Dal motoscafo del Consorzio ci gridarono di dirigere verso il Molo Giano, e così facemmo. Lasciammo il nostro uomo a terra poi virammo di bordo ed eravamo ancora là, con rimorchiatori e altri mezzi più piccoli.

Il capitano Enrico volteggiava tra gli alberi della nave con audaci manovre e il suo elicottero sembrava un frullino uscito da un manicomio. Non capivo come potesse trarre fuori dalla nave qualcuno col vento che lo strapazzava come una foglia secca tra i due alberi che ancora si agitavano. Provò poi a prendere qualcuno dall'acqua con il suo canestrello e la cima che il vento agitava come una sciarpa alla Richstofen.

Il naufrago, per afferrarlo, avrebbe dovuto possedere le capacità di un delfino o di un'orca ammaestrata. Impotenza. Quello era il giorno dell'impotenza. Solo la Cp riusciva a starsene fuori dalla diga, alta sull'onda come un purosangue, barca splendida, magnifica.

Poi, ad un tratto, Oh no! gridò Antonio ed ecco diritti sulla nostra prua, al di là della nostra portata, una dozzina di teste nereggianti sull'acqua e a circa trecento metri uno stramaledetto traghetto (delle Linee Canguro, ndr) che sbucava da levante e agguantando la prua al vento, puntava sull'imboccatura a tutta forza. Li va sopra, li ammazza tutti! mi gridò il mio compagno. Era inutile commentare, superfluo cedere all'incazzatura. Cercai di pensare cosa potevamo fare. Forse, in extremis, vedendo gli uomini in mare sulla sua rotta, il traghetto avrebbe potuto accostare a sinistra e, scapolando la diga, riprendere il largo.

Provai a pensare come un terricolo, ma sapevo che una manovra impostata in quelle condizioni non è facile cambiarla. Ammesso che da bordo avessero già visto gli uomini in acqua dato che s'intravedevano appena, tra un'onda e l'altra, come piccoli palloni neri. Decisi che non li avevano ancora visti e misi il motoscafo al traverso. Non era la cosa più facile del mondo perché ci dovevano essere correnti di ogni specie e il timone era sordo come una campana. L’unico modo di sensibilizzarlo era quello di manovrare a tutta forza. Ora certamente ci vedevano.

Messi al traverso era impossibile non vederci.

Era l'unico modo per mettere in guardia chi era sul ponte, ma non avrebbe rallentato, ovviamente, ne io mi illudevo che lo facessero. Volevo solo che qualcuno guardasse, verso di noi per vedere, forse, i naufraghi. Lentamente i rimorchiatori già s'erano defilati. Qualcuno ci gridò di toglierci di mezzo. Qualche imbecille pensava forse che ci mettessimo a fare i toreador col Canguro. Antonio mi guardava di sottecchi e io mi rendevo conto che aveva paura. Se avessimo avuto a bordo un paurometro sarebbe apparso chiaro che io avevo anche più paura di lui.

Quella prua spumeggiante che si avvicinava sempre più sembrava sempre più minacciosa e più veloce. Una nave che ti viene addosso a quel modo non ti da molta allegria e quindi potevo capire cosa potevano provare quei poveracci ch'erano in acqua e se la vedevano arrivare addosso. Tra l'altro sembravano ancorati in quel punto come se un gioco di correnti contrapposte li tenesse immobili proprio lungo la rotta della nave. Lentamente, col cuore in gola, cominciai a defilarmi, gli occhi fìssi su quelle teste e sulla prua che li puntava. Quanti secoli trascorsero prima che la prua della nave scivolasse come una lama di coltello dov'erano loro qualche istante prima?

Esiste sicuramente un tempo dell'uomo che è al di fuori di tutti gli orologi e di tutte le Greenwich del mondo. Una clessidra che lascia scorrere un grano di sabbia ogni diecimila anni. Li osservai stracquare ed ogni loro centimetro era lungo miglia e miglia, interminabile come l'eternità. Quando il tempo ci ritornò vicino, manovrai dirigendo verso levante, ancora schermato dall'estremità della diga. Vidi che anch'essi tendevano a portarsi nella zona sottovento. Andavano verso la spiaggia della Cava, distante un centinaio di metri. Con noi o senza di noi forse ce l'avrebbero fatta.

Fu così che quasi senza accorgermene ci trovammo vicino alla Cp che stava rinculando a tutta forza con una scialuppa a rimorchio data volta sulla sua prua. Non contai quanti fossero i bengalini che l'occupavano, ma era sicuramente una quindicina. La barca era completamente allagata e aveva si e no dieci centimetri di bordo libero. Notai un bengalino semisvenuto col mento appoggiato al bordo, la bocca semi aperta e l'acqua che faceva i baffi sul suo viso e lo stava ammazzando. Suonai all'ufficiale della Cp, Antonio gli gridò di rallentare, ma quello non ci sentì, ammesso che ci avesse visto tanto era infervorato nella manovra. Allora decisi che l'unico modo per intenderci era quello di piantare la nostra prua verso la cima del rimorchio, nel bel mezzo tra la scialuppa di salvataggio e la Cp. Non era una manovra da manuale e l'ufficiale che comandava la Cp fu costretto a fermare di colpo. Forse non mi avrebbe abbracciato se gli fosse stato possibile, ma la cosa funzionò.

Quell'uomo sta soffocando, gli gridai, faccia passare la cima a noi.

Mentre manovravo azionai il clackson con tre suoni lunghi per segnalare a una nostra motobarca di avvicinarsi. Volevo che ci stesse vicina nell'eventualità che la lancia si capovolgesse. Secondo logica non era possibile, ma lasciai da parte la logica. E la motobarca, per fortuna, capì e venne verso di noi. Non era pensabile un rimorchio alla banda col batticulo e così passammo la cima a poppa. Procedemmo di conserva con la lancia che ci veniva dietro più lentamente. Il rimorchio veniva in bando a tratti obbligandomi a rallentare per non dare inutili strattoni. Quando accostammo al molo Giano c'era una piccola folla che applaudì tutto il corso della manovra ed io pensai che tutto questo non aveva senso.

Ritornammo sull'imboccatura e vi rimanemmo finché non venne a darci il cambio la squadra che montava per la notte. Fu solo allora che conoscemmo i dettagli della tragedia. Stavo infilandomi nella doccia e il pianto mi colse all'improvviso come una coltellata in un vicolo, a tradimento. Nessuno commentò.

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12 luglio 1981
Intervento sulla petroliera giapponese Hakuyo Maru

genova in foto, sullo sfondo il fumo nero esce dalla petroliera giapponese Hakuyo Maru

12 luglio 1981 Intervento sulla petroliera giapponese Hakuyo Maru

fotografia dei ponti della petroliera hakuyo maru, distrutti dopo l'esplosione

Ecco come si sono presentati i ponti della petroliera Hakuyo Maru pochi giorni dopo l’esplosione avvenuta il 12 luglio 1981 a Multedo, agli ormeggiatori che si sono recati a bordo in servizio sostitutivo di equipaggio: prima per il ripristino degli ormeggi, giacché la nave era pericolosamente inclinata, poi per il trasferimento dal pontile Delta, al campo boe dell’Italcantieri.

Ore 14,47, domenica 12 luglio 1981, l'inferno apre le sue porte a Genova - Multedo.

Un fulmine colpisce la petroliera giapponese Hakuyo Maru, ormeggiata a uno dei pontili del porto petroli. Prima una poi altre due, le esplosioni sono tremende: vetri di finestre e vetrine di negozi in frantumi da Pegli a Sestri Ponente. E purtroppo vittime umane.

Alla fine di quel tragico pomeriggio se ne conteranno cinque: quattro marittimi e un tecnico della Snam, oltre a diversi feriti. La petroliera giapponese è squarciata e inclinata. La sua coperta è un ammasso di sovrastrutture e lamiere contorte. La pressione interna la gonfia: si temono altri scoppi. Suoi rottami incandescenti sono intanto caduti ovunque nel terminal provocando incendi. E una situazione di estremo pericolo. Ai pontili sono attraccate altre petroliere, quattro o cinque tra grandi e piccole: dovessero essere raggiunte dal fuoco sarebbe il cataclisma.

Sotto dense e altissime colonne di fumo, nell'aria resa quasi irrespirabile dai gas di petrolio, così si è trasformato Multedo nel giro di qualche minuto. Ed è con questa immagine apocalittica che si presenta agli addetti alla sicurezza accorsi, subito dall'interno del terminal, pochissimo tempo dopo dall'esterno. "Mi trovavo nei pressi quando è avvenuta la prima esplosione", racconta Giuseppino Bisio, oggi vicecapo gruppo degli ormeggiatori di Genova. "Pochi minuti dopo ero in mezzo a quel putiferio di fuoco e fumo, assieme agli otto uomini del nostro distaccamento al porto petroli".

"Abbiamo subito capito che gli interventi di più immediata emergenza riguardavano le altre petroliere ormeggiate ai pontili: bombe ad altissimo potenziale, da un momento all'altro potevano essere innescate... Era necessario allontanarle dall'Hakuyo Maru, sulla cui carcassa e attorno a essa già erano al lavoro uomini e mezzi antincendio, nonostante il pericolo di nuove devastanti esplosioni".

E questo avvenne, in una manciata di minuti, anche con il decisivo aiuto di due squadre di ormeggiatori giunte dalla sede di ponte Doria: dodici uomini, più alcuni altri che non erano in servizio, ma svelti a intervenire dopo aver saputo della gravità della situazione.

Allontanare quasi simultaneamente quattro o cinque navi dai pontili, in spazi ristretti, sia pure con l'assistenza di potenti rimorchiatori, non è impresa semplice, neppure in condizioni normali.

"Non so come allora ci riuscimmo", si stupisce ancora Bisio.

Sul lavoro di ormeggiatori, piloti e rimorchiatori non gravavano solo le alte probabilità di nuovi scoppi. C'erano ostacoli concreti che li intralciavano: dalle chiazze di mare infiammato da idrocarburi ai pontili resi quasi inagibili dalle cascate di schiumogeni.

"Ma a prora con le motobarche e a poppa con i mezzi di terra il lavoro fu fatto. In breve tempo le navi erano al largo, al sicuro, e le 'bombe' disinnescate". Sulla Hakuyo Maru intanto gli interventi proseguono su elevatissimi livelli di rischio. Null'altro per fortuna accade e alle 20,40, dopo sei ore di lavoro effettuato in condizioni di estremo disagio e pericolo, viene dato il cessato allarme. Anche se le opere di spegnimento degli incendi terminerà tre ore dopo. Le porte dell'inferno sono definitivamente chiuse. Resta da fare l'ultima fase, l'allontanamento del relitto dal porto petroli, ma se ne riparlerà l'indomani.

Lunedì mattina. Il fumo su Multedo è svanito, ma l'aria è ancora ammorbata. Tutto è impregnato dall'odore di petrolio. Gli abitanti della zona sono shoccati. Si piangono i morti e si cominciano a valutare i danni. Sulla petroliera giapponese ci sono gli ormeggiatori. Sono una ventina e stanno effettuando un sopralluogo.

"Per capire il modo migliore per disormeggiare la nave soprattutto per poi posizionarla al campo boe della Fincantieri, allora Italcantieri", spiega Bisio. "Un macello, per entrambe le operazioni, perché a bordo tutto era bloccato. Tuttavia nonostante i rischi per la nostra incolumità l'operazione fu condotta a termine e sfilata l'ancora, a mano, maglia per maglia, la Hakuyo potè infine dar fondo nel suo nuovo ormeggio e attendervi il suo futuro destino”.

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5 febbraio 2003
Ormeggio al VTE

nel turno di notte una motobarca prende il cavo affiancata alla nave

2003 presa del cavo spring, con motobarca

nave ad ormeggio quasi terminato

2003 fase di ormeggio sui cavi poppieri alla lunga

Notte del 5 febbraio 2003 ore 23.10

“Vento a trenta nodi, siete al fresco ragazzi”!

“Grazie non l’avevamo capito...”

Paolo l’ormeggiatore più anziano della squadra, non gradisce per nulla gli scherzi in notti polari come questa. Il rimorchiatore OLANDA sta portando dentro un grosso portacontainers in arrivo dagli Stati Uniti. Tanto il suo Comandante quanto il capo macchinista sono al caldo nella plancia vetrata. Fuori noi aspettiamo che la manovra di allineamento sia completata per afferrare le cime e ormeggiare il bastimento.

“Tre giorni fa lassù era tutto bianco....”

“Non preoccuparti ce la siamo data!”

C’è una certa tensione stasera, senza dubbio per via del freddo. Ma è sicuramente la lista dei movimenti, un po’ troppo pesante ad esacerbare gli animi. Ho le mani insensibili, il berretto calcato il più possibile sulle orecchie gelate e nonostante mi sia fatto prestare una giacca termica da un ormeggiatore in franchigia e calzato uno spesso paio di calze di lana norvegese, sto ugualmente morendo dal freddo.

Siamo appena tornati al lavoro durante il nostro turno di notte al VTE, il terminal containers di Genova Voltri, nel ponente genovese.

Irto di una dozzina di gru a portale, il terminal containers è un’enorme piattaforma rubata al mare. Protetto a sud dalla diga foranea, si trova ai piedi dell’imponente massiccio degli Appennini, le montagne che avvolgono il Golfo di Genova. In inverno la presenza ravvicinata di questi bastioni (si sale a 1000 metri di altitudine in pochissimo tempo) genera, quando tira tramontana, delle correnti d’aria gelida che si riversano sul mare. Da un punto all’altro, queste violente raffiche fanno passare l’anemometro dai 30 ai 45 nodi.

La manovra di accosto e l’ormeggio di una nave diventano complicati, pericolosi. Le luci gialle del terminal sono sistemate molto in alto, come in uno stadio.

Le piramidi di containers cambiano continuamente forma, a mano a mano che i contenitori sbarcati sono posati uno sopra l’altro come in un gigantesco gioco di costruzioni, Umberto, uno dei miei amici ormeggiatori, mi dà le istruzioni da seguire:Stai attento a non avvicinarti ai binari, le gru semoventi si muovono e tu sei un moscerino per loro, se ti prendono splaf! Stai vicino a noi e non ti avvicinare troppo al ciglio banchina; se cadi in mare in una notte come questa rischi di farti ripescare a Monaco tra due settimane. E soprattutto quando diamo volta ai cavi non restare sulla loro traiettoria mentre li virano: se senti toc toc toc, gambe in spalla e corri, quello schiocco vuol dire che il cavo sta per spezzarsi. Rischi di farti tagliare in due. A parte questo direi che non c’è altro. OK?”.

“C’è anche un po’ di nebbia “ faccio io soprapensiero. “OK, a posto andiamo.” Usciamo dalla macchina dove ci eravamo asserragliati anche per segnalare la posizione della poppa al pilota, in attesa di entrare in azione.

Ci dirigiamo verso il SeaLand Motivator che offre il fianco di dritta al vento notturno. Ormai è pronto per la manovra. Con le mani ben ficcate in fondo alle tasche mi guardo intorno per individuare tutti i pericoli evocati da Umberto.

La notte è veramente buia, la luce livida dei riflettori al sodio rende ogni forma spettrale. Guardo i miei compagni; vedo, le loro tenute da lavoro arancio-blu cambiare forma e colore ad ogni passare dall’ombra alla luce. Cerco i loro volti ma sono inghiottiti dai loro berretti calati fino agli occhi. La nave è nascosta da una montagna di cassoni metallici. Se ne intuisce la presenza, quasi la si attende.

Il vento urla forte la sua rabbia, inutile tentare di parlare. Solo il portatile vhf gracchia qualche parola, più o meno comprensibile “due bitte avanti.........ok........spring a terra”. Più ci avviciniamo al bordo del molo e più fa freddo. Come fossimo risucchiati dal vuoto, i nostri passi ci portano dritti verso l’oscurità. E’ una voce che si alza dal fondo, una voce possente, che non ammette repliche. La voce del mare. Mi arresto, sopraffatto.

Lo stupore è così grande che ho scordato di avere freddo, ho scordato pure il dolore lancinante del mio pollice che ho storto urtando accidentalmente contro la portiera mentre uscivo dall’auto. I fischi degli ormeggiatori all’opera mi riportano alla realtà, il bastimento immenso brilla delle sue luci come un’improbabile nave spaziale. Malgrado il vento terribile, la nebbia ci avviluppa, gli uomini sembrano uscire dal vuoto come ectoplasmi. Le loro sagome si materializzano nelle fredde luci gialle. Non riesco più a capire se siano creature reali o spettri. Tutto è rapido, mobile, informe, incerto. In questo strano carosello credo di aver visto le gru semoventi avanzare verso di me nella notte, il gozzo degli ormeggiatori danzare sul remone delle eliche, di avere udito il rumore delle cime schiantarsi e la voce delle sirene chiamarmi dalla testata del molo...

Rientrando in sede uno degli ormeggiatori, Sergio, mi confessa che con la pioggia, o con temperature come stasera, tutto si complica: l’ingombro della cerata, la tenuta invernale che ostacola i movimenti, senza parlare del vento e delle difficoltà a parlare, a capirsi. A volte vai, svalvoli come è successo ieri sera a Marco: un po’ la fatica, il poco sonno, la tensione. Spesso le manovre devono essere estremamente rapide e non sono ammessi sbagli; tutto ciò rende nervoso. E comunque si, in fin dei conti amo il mio lavoro, sono io il responsabile di quel che faccio, e in questa responsabilità sta anche la mia libertà. La TV accesa, siamo seduti a tavola nella cucina degli ormeggiatori e aspettiamo che il caffè venga su.

Paolo e i suoi colleghi parlano del loro lavoro e cercano risposte alle mie domande. Il GAO si vanta di essere stata fondata nel 1473 (LA compagnia dei BARBI) e di avere vissuto tutte le tappe fondamentali della vita del porto e della sua evoluzione. Ed hanno ragione, il mondo portuale evolve. Se la trasmissione del mestiere di padre in figlio va scomparendo, le tradizioni, l’impegno, lo spirito di socialità verso il Gruppo rimangono inalterate e vivono ancora giorni di gloria. Moderno e antico,evoluzione dei tempi e storia. Finalmente un caffè veramente nero e ristretto esce dalla caffettiera, pochi secondi ed è già precipitato nelle nostre tazze avide. “Bene abbiamo due ore prima della prossima da nave, e poi arriva l’alba”. “Vado a sdraiarmi un po’” Davide si ritira. Paolo lo segue, Umberto ed io, mentre lui rimane alla radio di guardia, restiamo a evocare ricordi di gioventù, poi la nostra passione per i libri di storia, le nostre scelte di vita..la notte passa Genoa control station, Genoa control station......canta il vhf alle 04.20 am.

In piedi è l’ora di prepararsi, è in arrivo il Kirsten.....tutti si attivano.

Si ricomincia.

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